CORTILE CONDOMINIALE E ASSEGNAZIONE POSTO AUTO

CORTE DI CASSAZIONE

Sez. II civ., sent. 12.11.2015,

n. 23118

RITENUTO IN FATTO 

1. F.E. convenne in giudizio, innanzi al Tribunale di Chiavari, il fratello F.M., chiedendo procedersi allo scioglimento della comunione esistente sul cortile adiacente al fabbricato di loro proprietà ovvero in subordine – ove la divisione non fosse stata possibile – chiedendo l’individuazione e l’assegnazione, all’interno dell’area comune, dei posti-auto di pertinenza di ciascuna della parti; chiese ancora lo scioglimento della comunione relativa al vano sottotetto, con attribuzione a ciascuno dei fratelli della rispettiva parte. 

Il convenuto, costituitosi, resistette alle domande attrici, chiedendone il rigetto. 

Il Tribunale adito respinse la domanda di divisione del cortile adiacente al fabbricato, ritenendone la indivisibilità, ma – sulla base della esperita C.T.U. – individuò i posti-auto in esso ricavabili e li ripartì assegnandoli a ciascuna delle parti; dispose poi la divisione del vano sottotetto, assegnando a ciascuna delle parti le due porzioni individuate dal consulente tecnico, con facoltà di ciascun condividente di erigere una parete divisoria. 

2. Sul gravame proposto da F.M., la Corte di Appello di Genova, con sentenza dell’1.9.2010, confermò la sentenza di primo grado. 

3. Per la cassazione di tale sentenza ricorre F.M. sulla base di tre motivi. 

Resiste con controricorso F.E.. 

Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 cod. proc. civ.. 

CONSIDERATO IN DIRITTO 

1. Col primo motivo di ricorso, si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 1102 cod. civ., nonché il vizio di motivazione della sentenza impugnata; si deduce, in particolare, che i giudici di merito, assegnando individualmente ai comproprietari i posti-auto nel cortile comune, avrebbero creato un “nuovo” diritto reale, in violazione del principio di tipicità degli stessi, e avrebbero impedito a ciascun condomino l’uso della cosa comune in tutta la sua estensione. 

La censura non è fondata. 

E invero, l’assegnazione dei posti-auto nel cortile comune costituisce manifestazione del potere di regolamentazione dell’uso della cosa comune, consentito all’assemblea del condominio (sez. 2, sentenza n. 12485 del 19/07/2012); né tale regolamentazione con relativa assegnazione di singoli posti-auto ai vari condòmini determina la divisione del bene comune o la nascita di una nuova figura di diritto reale, limitandosi solo a renderne più ordinato e razionale l’uso paritario della cosa comune (sez. 2, sentenza n. 6573 del 31/03/2015). 

È evidente, poi, che in mancanza di accordo tra i condòmini o di delibera assembleare (o addirittura – come nella specie – ove l’assemblea non sia stata neppure costituita), la regolamentazione dell’uso della cosa comune ben può essere richiesta al giudice e da lui disposta (cfr. sez. 2, ordinanza n. 3937 del 18/02/2008). 

2. Col secondo motivo di ricorso, si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 1102 e 2909 cod. civ., per avere la Corte territoriale ritenuto passata in giudicato la statuizione della sentenza di primo grado relativa alla individuazione dei posti-auto. Secondo il ricorrente, il gravame proposto relativamente all’assegnazione dei posti-auto avrebbe implicato anche la censura circa la individuazione dei posti-auto compiuta dal giudice sulla base della esperita C.T.U. 

Anche questa censura è infondata. 

Esattamente la Corte territoriale ha ritenuto che con l’atto di gravame non fosse stata censurata la individuazione dei posti-auto, ma solo la loro assegnazione individuale; ciò perché nell’atto di appello si è chiesto dichiararsi il diritto di entrambe le parti di parcare la propria autovettura nei posti-auto individuati dal C.T.U. e non si è contestata la individuazione delle aree ove i posti-auto erano stati previsti. 

3. Col terzo motivo di ricorso, si deduce infine la violazione e falsa applicazione degli artt. 1102 e 1119 cod. civ., nonché il vizio di motivazione della sentenza impugnata; si deduce, in particolare, che la realizzazione della parete divisoria nel locale sottotetto dell’edificio – del quale i giudici di merito hanno disposto la divisione tra le parti – impedirebbe al ricorrente di raggiungere il tetto o le altre parti comuni per effettuare le riparazioni. Si deduce ancora che l’onere di ciascuno dei comproprietari di consentire all’altro di accedere alla propria parte del sottotetto per eseguire le riparazioni delle parti comuni dell’edificio avrebbe creato un “nuovo” diritto reale, inesistente e atipico. 

Anche questa doglianza non può trovare accoglimento. 

Premesso che la statuizione della sentenza di primo grado che ha disposto la divisione del sottotetto non è stata appellata ed è passata in giudicato, i ricorrenti contestano la facoltà riconosciuta alle parti di costruire una parete divisoria a protezione delle rispettive proprietà, per il fatto che tali pareti impedirebbero a ciascuno dei condividenti di accedere al tetto e alle altri parti comuni. 

E tuttavia, la Corte di Appello ha statuito che detta impossibilità di accesso non sussiste, in quanto ciascun condomino ha l’obbligo di consentire all’altro l’accesso alle parti comuni per eseguire le necessarie riparazioni. 

Tale onere di consentire al vicino il transito nella propria parte del sottotetto per accedere alle parti comuni, al fine di eseguire le necessarie riparazioni, non costituisce alcun nuovo diritto reale, né rappresenta un onere atipico posto a carico delle parti dai giudici di merito, ma discende direttamente dall’applicazione dell’art. 843, primo comma, cod. civ., a tenore del quale “Il proprietario deve permettere l’accesso e il passaggio nel suo fondo, sempre che ne venga riconosciuta la necessità, al fine di costruire o riparare un muro o altra opera proprietà del vicino oppure comune”. 

4. Il ricorso deve pertanto essere rigettato, con conseguente condanna della parte ricorrente, risultata soccombente, al pagamento delle spese processuali, liquidate come in dispositivo. 

P. Q. M. 

La Corte Suprema di Cassazione rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese processuali, che liquida in euro 3.200, di cui euro 200 per esborsi, oltre spese forfettarie ed accessori di legge. 

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DIVISIONE DI ALLOGGIO E SERVITU’ DI PASSAGGIO

CORTE DI CASSAZIONE

Sez. II civ., sent 9.12.2015,

n. 24853

RITENUTO IN FATTO 

1. G.S. convenne in giudizio D.M. e SA. – i quali gli avevano venduto una porzione del loro appartamento (da lui acquistato allo scopo di unirlo al proprio, posto in adiacenza sullo stesso piano) nonché un box sulla soprastante terrazza – chiedendo, per quel che rileva nel presente giudizio, che gli fosse riconosciuto il diritto di passaggio rispettivamente attraverso l’appartamento e terrazza dei convenuti. 

2. La domanda attorea fu respinta dal Tribunale di Messina. 

3. Sul gravame proposto dall’attore, la Corte di Appello di Messina dichiarò l’esistenza, in favore dell’immobile acquistato dal G.S., di una servitù di passaggio attraverso la stanzetta di ingresso e il corridoio dell’immobile del D.M. al fine di accedere ai vani adibiti ad abitazione acquistati dal G.S. e di una ulteriore servitù di passaggio attraverso la terrazza di proprietà dello stesso al fine di accedere al box; compensò per metà le spese dei due gradi del giudizio e pose la restante metà a carico del convenuto. 

4. Per la cassazione della sentenza di appello ricorre D.M. sulla base di sei motivi. 

Resiste con controricorso G.S.. 

Il ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 cod. proc. civ.. 

CONSIDERATO IN DIRITTO 

(omissis)

2. Col secondo e col quarto motivo di ricorso, che possono essere trattati unitariamente, si deduce la violazione e la falsa applicazione dell’art. 1062 cod. civ. nonché il vizio di motivazione della sentenza impugnata, per avere la Corte territoriale ritenuto che il D.M. non avesse manifestato la propria volontà di escludere la nascita delle servitù pretese dall’attore in forza del frazionamento catastale del suo immobile eseguito presso l’U.T.E. di Messina, prima dell’atto di compravendita e citato nell’atto stesso, al quale frazionamento era allegata una piantina catastale in cui erano stati indicati i muri da edificarsi al fine di dividere i due immobili. 

I motivi sono fondati. 

Com’è noto, tra i modi di costituzione volontaria delle servitù apparenti vi è la figura iuris della “destinazione del padre di famiglia”, che – secondo la definizione di cui all’art. 1062 primo comma cod. civ. – ricorre «quando consta, mediante qualunque genere di prova, che due fondi, attualmente divisi, sono stati posseduti dallo stesso proprietario e che questi ha posto o lasciato le cose nello stato dal quale risulta la servitù». 

Il secondo comma dell’art. 1062 cod. civ. stabilisce che la servitù si intende stabilita attivamente e passivamente a favore e sopra ciascuno dei fondi separati nel momento in cui cessano di appartenere allo stesso proprietario, salvo il caso in cui il proprietario abbia diversamente stabilito (la costituzione della servitù si verifica, cioè, alla condizione che l’originario unico proprietario abbia diviso i fondi «senza alcuna disposizione relativa alla servitù»). In altre parole, quando il fondo cessa di appartenere allo stesso proprietario (per divisione, vendita parziale, etc.), è automaticamente costituita, attivamente e passivamente, a favore e sopra ciascuno dei due fondi separati una servitù – sempreché si tratti di servitù apparente – corrispondente allo stato di fatto preesistente, senza che occorra alcuna manifestazione di volontà negoziale; l’originario proprietario può, tuttavia, escludere la nascita della servitù mediante apposita dichiarazione di volontà in tal senso. 

Secondo la giurisprudenza di questa Corte suprema, dalla quale non v’è ragione di discostarsi, la disposizione dell’originario proprietario del fondo diviso idonea ad impedire, ai sensi dell’art. 1062, secondo comma, cod. civ., l’acquisto della servitù per destinazione del padre di famiglia deve provenire dal proprietario del fondo diviso, anche se non è richiesta la contestualità con la divisione del fondo stesso, potendo detta disposizione essere utilmente posta in essere anche in un momento anteriore (Sez. 2, Sentenza n. 1720 del 16/02/2000) e pure implicitamente (Sez. 2, Sentenza n. 1381 del 11/02/1998). 

Nella specie, il D.M., tre giorni prima del rogito notarile, ebbe a presentare all’U.T.E. di Messina, una richiesta di frazionamento del suo appartamento, con una piantina catastale in cui erano stati indicati i muri di divisione da edificarsi in modo da separare nettamente i vani venduti dai vani che erano destinati a rimanere nella sua proprietà. Tale atto di frazionamento fu richiamato nel rogito notarile. 

La Corte di Appello di Messina ha escluso che il D.M. avesse manifestato la volontà di escludere alcuna servitù di passaggio sulla parte di immobile che rimaneva nella sua proprietà per il fatto che nessuna chiara dichiarazione in tal senso era contenuta nel rogito notarile di compravendita. 

Così facendo, però, il giudice del merito non ha tenuto conto che la dichiarazione di cui all’art. 1062, secondo comma, cod. civ. ben poteva essere posta in essere anteriormente alla vendita (con la presentazione del tipo di frazionamento) e che era necessaria una puntuale indagine sulla sua conoscenza o conoscibilità da parte dell’acquirente. 

Palese è il vizio di motivazione della sentenza impugnata, laddove la Corte di Appello di Messina, nell’affermare che la volontà del proprietario di escludere il sorgere della servitù de qua non era stata resa nota all’acquirente, ha omesso di rilevare la circostanza che la presentazione della documentazione catastale di cui sopra era stata espressamente menzionata nel rogito notarile intercorso fra le parti, come indicato nel ricorso, ove è riportata la clausola n. l del medesimo contratto di vendita. 

3. Col terzo motivo di ricorso, si deduce la violazione dell’art. 1027 cod. civ., per avere la Corte di Appello ritenuto la sussistenza di una utilitas per la proprietà del G.S., nonostante che quest’ultima fosse del tutto autonoma e provvista di un proprio ingresso. 

Questo motivo è infondato. 

Com’è noto, uno degli elementi costitutivi della servitù prediale è la c.d. utilitas, nel senso – come stabilisce l’art. 1027 cod. civ. – che il peso sul fondo servente deve essere imposto «per l’utilità di un altro fondo appartenente a diverso proprietario». 

Il requisito dell’utilità per il fondo dominante, può consistere in qualunque vantaggio, anche non economico, che assicuri al fondo dominante una maggiore amenità, comodità o un migliore panorama o prospetto (Sez. 2, Sentenza n. 14693 del 16/10/2002; Sez. 2, Sentenza n. 4042 del 12/07/1979); è necessario, tuttavia, che l’utilità abbia un fondamento obiettivo e “reale”, sia dal lato attivo che da quello passivo, nel senso che costituisca un vantaggio diretto del fondo dominante come mezzo per la migliore utilizzazione di questo, non potendo essa – al contrario – risolversi in un mero vantaggio soggettivo ed estrinseco relativo all’attività personale svolta dal proprietario del fondo dominante (Sez. 2, Sentenza n. 10370 del 22/10/1997; Sez. 2, Sentenza n. 6740 del 15/11/1986). 

Alla stregua di quanto sopra, questa Corte ha affermato che 1′ utilitas di una servitù di passaggio sussiste anche quando il fondo dominante disponga pure di altri e più comodi accessi (Cass., Sez. 2, n. 6973 del 25 marzo 2011; Sez. 2, Sentenza n. 4036 del 28/04/1994). 

Nella specie, la Corte territoriale ha fatto applicazione dei richiamati principi di diritto, ritenendo correttamente che l’esistenza di altri accessi agli immobili del Guida non escludesse la sussistenza della utilitas delle pretese servitù. 

4. Col quinto e col sesto motivo di ricorso, che vanno trattati unitariamente, si deduce la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2733 cod. civ. e 116 cod. proc. civ., nonché il vizio di motivazione della sentenza impugnata, per avere la Corte territoriale ritenuto che le dichiarazioni rese dal D.M. in sede di interrogatorio formale avessero contenuto confessorio ex art. 2733 cod. civ.. Secondo il ricorrente, la Corte di merito non avrebbe considerato che il D.M., nel rispondere all’interrogatorio, si era limitato a descrivere lo stato dei luoghi al momento della compravendita ed aveva contestualmente precisato che il G.S. aveva operato l’acquisto al fine di collegare i vani acquistati al proprio appartamento confinante; la Corte di Messina non avrebbe poi motivato in ordine al valore di confessione riconosciuto alle dichiarazioni del D.M. in presenza della documentazione relativa al frazionamento, dalla quale sarebbe risultata in modo palese la volontà del venditore di escludere ogni servitù di passaggio. 

Anche questi motivi sono fondati. 

Secondo la giurisprudenza di questa Corte, le ammissioni rese in sede di interrogatorio formale non hanno efficacia confessoria piena, ai sensi degli artt. 2733 e 2734 cod. civ., ove siano accompagnate da dichiarazioni aggiunte idonee a modificare od estinguere gli effetti della confessione, e debbono pertanto essere oggetto di valutazione unitaria e complessiva da parte del giudice (Cass., Sez. 2, n. 3244 del 10 febbraio 2009; cfr. anche Sez. 3, Sentenza n. 23637 del 20/12/2004; Sez. 1, Sentenza n. 7267 del 06/08/1997). 

Nella specie, la Corte di Appello di Messina, nel considerare le dichiarazione rese dal venditore in sede di interrogatorio formale, ha attribuito valore alla descrizione di ciò che era lo stato dei luoghi al momento della compravendita, ma non ha affatto considerato che il D.M. aveva aggiunto che il G.S. aveva acquistato parte del suo immobile per collegarlo al proprio (come risulta dal complessivo tenore dell’interrogatorio formale, il cui testo è stato integralmente riportato a pagina 15 del ricorso, in osservanza del principio di autosufficienza). 

Peraltro, nessun valore confessorio avrebbe potuto attribuirsi alla mera descrizione dei luoghi prima della divisione dell’immobile, essendo ovvio che i vani che appartenevano al D.M. – prima della vendita e fino alla stessa – fossero collegati tra loro; confessione avrebbe potuto esservi solo se le dichiarazioni rese dal convenuto avessero attinto il punto decisivo della controversia, quello concernente la mancata manifestazione di volontà dello stesso – quale originario proprietario – di escludere la nascita della servitù. 

Erroneamente, perciò, la Corte territoriale ha attribuito valore confessorio alle dichiarazioni rese dal D.M. in sede di interrogatorio formale, attribuendo ad esse efficacia di prova legale; ed erroneamente ha riconosciuto a tali dichiarazioni, proprio in quanto confessorie, «carattere prevalente sulle risultanze di cui al frazionamento valorizzato dal G.O.A.» (così a p. 5 della sentenza impugnata). 

La Corte di Messina avrebbe dovuto, al contrario, procedere ad un