Revoca amministratore e giudizio del tribunale
CORTE DI CASSAZIONE
Sez. VI civ., ord. 23.6.2017, n. 15706
Fatti di causa e ragioni della decisione
Il ricorrente M.P. impugna, articolando due motivi di ricorso ex art. 111 Cost., il decreto del 22 aprile 2016 della Corte d’Appello di Roma, che ha accolto il reclamo proposto avverso il provvedimento del Tribunale di Roma reso in data 14 maggio 2015, con il quale era stata dichiarata inammissibile la domanda di L.F. di revoca giudiziale del M.P. dall’incarico di amministratore del Condominio …, in quanto proposta personalmente dalla parte senza il ministero di difensore.
L.F. resiste con controricorso.
La Corte d’Appello di Roma ha affermato che nel procedimento di revoca dell’amministratore ex artt. 1129, comma 11, c.c. e 64, disp. att. c.c., il condomino è legittimato a difendersi personalmente e non deve perciò ricorrere all’assistenza di un legale, trattandosi di giudizio di volontaria giurisdizione privo di carattere decisorio e di incidenza con effetti di giudicato su posizioni soggettive. I giudici del reclamo hanno poi ravvisato la denunciata grave irregolarità imputabile all’amministratore M.P., per non aver dato esecuzione a tre sentenze di annullamento di alcune deliberazioni assembleari. La Corte di Roma, conseguentemente, ha disposto la revoca di M.P. dall’incarico di amministratore del Condominio …, e condannato lo stesso di entrambe le fasi del procedimento, liquidate in euro 1.900 a titolo di compenso professionale in relazione alla prima fase davanti al Tribunale ed in euro 2.100 a titolo di compenso professionale in relazione alla fase di reclamo.
M.P. deduce un primo motivo di ricorso per violazione dell’art. 82 c.p.c. in relazione all’art. 1129, comma 11, c.c., atteso che, essendo il giudizio di revoca dell’amministratore di condominio un procedimento “sostanzialmente contenzioso” (benché “formalmente camerale” ed a parti contrapposte), il condomino istante non poteva difendersi personalmente.
Il secondo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c. in relazione agli artt. 2229 e 2231 c.c., affermando l’erroneità della condanna alla rifusione delle spese della prima fase del giudizio, alla quale l’istante L.F. aveva preso parte di persona, senza avvalersi del patrocino di avvocato.
(omissis)
Quanto al primo motivo, secondo consolidato orientamento di questa Corte, infatti, è inammissibile il ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost., avverso il decreto con il quale la corte di appello provvede sul reclamo avverso il decreto del tribunale in tema di revoca dell’amministratore di condominio, previsto dagli art. 1129 c.c. e 64 disp. att. c.c., trattandosi di provvedimento di volontaria giurisdizione; tale ricorso è, invece, ammissibile soltanto avverso la statuizione relativa alla condanna al pagamento delle spese del procedimento, concernendo posizioni giuridiche soggettive di debito e credito discendenti da un rapporto obbligatorio autonomo (omissis).
È dunque inammissibile la censura che M.P. rivolge al decreto impugnato, sotto forma di vizio in procedendo, diretta a sindacare la decisione sulla questione della validità della difesa personale nel condomino del procedimento di revoca.
Trattandosi di profilo comune a quello oggetto del secondo motivo di ricorso, va peraltro osservato come il procedimento di revoca giudiziale dell’amministratore di condominio, che può essere intrapreso su ricorso di ciascun condomino, riveste un carattere eccezionale ed urgente, oltre che sostitutivo della volontà assembleare, ed è ispirato dall’esigenza di assicurare una rapida ed efficace tutela ad una corretta gestione dell’amministrazione condominiale, a fronte del pericolo di grave danno derivante da determinate condotte dell’amministratore. Non è quindi ammessa la partecipazione al giudizio del condominio o degli altri condòmini: interessato e legittimato a contraddire è soltanto l’amministratore, non sussistendo litisconsorzio degli altri condòmini (Cass. Sez. 2, 22/10/2013, n. 23955). Il giudizio è improntato a rapidità, informalità ed ufficiosità, potendo, peraltro, il provvedimento essere adottato “sentito l’amministratore in contraddittorio con il ricorrente” (art. 64, comma 1, disp. att., c.c.). Il decreto del tribunale di revoca incide, quindi, sul rapporto di mandato tra condòmini ed amministratore al culmine di un procedimento camerale plurilaterale, nel quale, tuttavia, l’intervento giudiziale è pur sempre diretto all’attività di gestione di interessi. Pertanto, il provvedimento del tribunale non riveste alcuna efficacia decisoria e lascia salva al mandatario revocato la facoltà di chiedere la tutela giurisdizionale del diritto provvisoriamente inciso, facendo valere le sue ragioni attraverso un processo a cognizione piena (pur non ponendosi questo come un riesame del decreto) (Cass. Sez. U., 29/10/2004, n. 20957; Cass. Sez. 6-2, 01/07/2011, n. 14524).
Poiché, allora, il giudizio di revoca dell’amministratore di condominio ex artt. 1129, comma 11, c.c. e 64, disp. att. c.c., dà luogo ad un procedimento camerale plurilaterale tipico, nel quale l’intervento del giudice è diretto all’attività di gestione di interessi e non culmina in un provvedimento avente efficacia decisoria, in quanto non incide su situazioni sostanziali di diritti o di “status”, non è indispensabile il patrocinio di un difensore legalmente esercente, ai sensi dell’art. 82, comma 3, c.p.c. (arg. da Cass. Sez. 1, 07/12/2011, n. 26365; Cass. Sez. 1, 29/05/1990, n. 5025).
È però fondato il secondo motivo di ricorso.
La Corte d’Appello ha riconosciuto la legittimità della partecipazione personale di L.F. alla fase del procedimento di revoca svoltosi davanti al Tribunale di Roma, ma ha poi liquidato in favore dello stesso per tale fase “euro 1.900 per compenso professionale”.
Tale statuizione contrasta con l’interpretazione costantemente offerta dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui, nei procedimenti in cui è consentita alla parte la difesa personale, la stessa, che non rivesta anche la qualità di avvocato, non può richiedere che il rimborso delle spese vive concretamente sopportate, da indicarsi in apposita nota, e non ha certo diritto alla liquidazione del compenso professionale spettante al difensore legalmente esercente (cfr. Cass. Sez. 1, 09/07/2004, n. 12680; Cass. Sez. 1, 02/09/2004, n. 17674).
Deve quindi rigettarsi il primo motivo di ricorso, accogliersi il secondo motivo e cassarsi il decreto impugnato, limitatamente al punto che liquida, in favore di L.F., le spese di lite “per la prima fase in complessivi euro 1.900 per compenso professionale”. La causa viene decisa nel merito, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto.
La parziale fondatezza del ricorso giustifica la compensazione tra le parti delle spese del giudizio di cessazione.
P.Q.M.
La Corte accoglie il secondo motivo di ricorso, rigetta il primo motivo, e, decidendo nel merito, cassa il decreto impugnato limitatamente al punto che liquida, in favore di L.F., le spese di lite relative alla prima del giudizio; compensa tra le parti le spese del giudizio di cassazione.
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Immissioni rumorose e danno
CORTE DI CASSAZIONE
Sez. II civ., ord. 28.8.2017, n. 20445
RILEVATO CHE:
E.L., riassunto il giudizio dopo dichiarazione di incompetenza del giudice di pace di Roma, ha convenuto innanzi al tribunale di Roma N.G., S.T. e V.T., proprietario il primo e conduttori in locazione gli altri di un locale in …, ad uso falegnameria, sottostante l’appartamento di proprietà dell’attrice; espletata c.t.u., il tribunale ha con sentenza depositata il 25/05/2006 dichiarato cessata la materia del contendere in ordine a domanda di inibitoria di immissioni di polveri, vapori e rumori – essendo state nelle more adottate misure di contenimento in base a ordinanze cautelari – condannando i soli conduttori al risarcimento dei danni per euro 10.000 oltre accessori;
la corte d’appello di Roma, in accoglimento dell’appello proposto dai signori S.T. e V.T. nel contraddittorio della sola signora E.L., ha riformato con sentenza depositata il 13/03/2013 la decisione del tribunale, rigettando la domanda risarcitoria, affermando che il danno da immissioni sarebbe risarcibile solo ove ne sia derivata comprovata lesione della salute, non essendo risarcibile la minore godibilità della vita, nonché – quanto al profilo probatorio – espressamente «dissente[ndo] dall’indirizzo giurisprudenziale recepito dal primo giudice, secondo cui quando venga accertata la non tollerabilità delle immissioni la prova del danno deve considerarsi in re ipsa» e rilevando che l’attrice avrebbe dovuto produrre «idonea documentazione sanitaria … e … chiedere l’espletamento di una c.t.u. medico-legale»;
avverso tale decisione ha proposto ricorso per cassazione E.L., affidandolo a un motivo, cui hanno resistito S.V. e V.T. con controricorso illustrato da memoria;
RITENUTO CHE:
sia manifestamente fondato l’unico motivo di ricorso, con cui la signora E.L. ha lamentato violazione di legge in relazione agli artt. 2 e 32 Cost. e 844, 2043, 2067 cod. civ., deducendo che la corte d’appello si sarebbe posta in contrasto con l’indirizzo giurisprudenziale secondo il quale la prova della lesione di un diritto costituzionalmente garantito è anche prova del danno, da ritenersi in re ipsa, o almeno tale prova – in mancanza di accertamento medico-legale – possa essere agevolata mediante presunzioni, che – secondo la signora E.L. – avrebbero nel caso di specie potuto fondarsi sulla situazione lavorativa documentata della stessa, impegnata in lavoro con turni notturni; al di là di remoti precedenti citati dalla corte d’appello e rimontanti a epoca in cui né la materia del danno alla salute né quella dei rimedi in tema di immissioni avevano conosciuto l’attuale sistemazione sorretta dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità, vada data continuità al principio da reputarsi oramai sufficientemente consolidato nella giurisprudenza di questa corte (Cass. Sez. U. 01/02/2017, n. 2611, in relazione alla trattazione anche di una questione di giurisdizione; ma v. anche ad es. Cass. 19/12/2014, n. 26899 e 16/10/2015, n. 20927), secondo il quale il danno non patrimoniale conseguente a immissioni illecite è risarcibile indipendentemente dalla sussistenza di un danno biologico documentato, quando sia riferibile alla lesione del diritto al normale svolgimento della vita personale e familiare all’interno di un’abitazione e comunque del diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita, trattandosi di diritti costituzionalmente garantiti, la cui tutela è ulteriormente rafforzata dall’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, norma alla quale il giudice interno è tenuto ad uniformarsi (vedi Cass. 16/10/2015, n. 20927);
ne consegue che la prova del pregiudizio subito può essere fornita anche mediante presunzioni o sulla base delle nozioni di comune esperienza;
vada dunque cassata l’impugnata sentenza; peraltro, non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto per essere il thema decidendum limitato al profilo giuridico del criterio probatorio, adottato dal giudice di primo grado e negato dalla corte d’appello, possa questa corte esimersi dal rinvio e pronunciare nel merito ex art. 384 cod. proc. civ., rigettando l’appello dei signori S.T. e V.T. (infondato dunque nei suoi tre motivi: il primo già disatteso sull’inesistenza delle immissioni, e non attinto dal ricorso in cassazione; il secondo sulla valutazione delle immissioni e del danno, e oggetto dunque delle statuizioni di cui innanzi; il terzo in materia di sospensiva, e quindi superato) e accogliendo la domanda della signora E.L. in coerenza – anche quanto alle spese – con la sentenza emessa dal tribunale;
vadano compensate, stante il consolidarsi in epoca recente dell’indirizzo giurisprudenziale adottato, le spese processuali del grado di appello e del giudizio di legittimità;
P.Q.M.
La corte accoglie il ricorso, cassa l’impugnata sentenza e, pronunciando nel merito, in accoglimento della domanda attrice, condanna S.T. e V.T. al risarcimento del danno a favore di E.L., che liquida in euro 10.000 oltre interessi nella misura legale dalla domanda, nonché alla rifusione a favore della medesima delle spese processuali del primo grado, che liquida in euro 2.300, di cui euro 300 per esborsi e 690 per diritti, oltre accessori di legge; compensa le spese per il grado d’appello e il giudizio di cassazione.