Ristorazione e attività commerciale

Corte di Cassazione sentenza n. 9402 del 4 aprile 2019.

Svolgimento del processo
La A.R.P. Food&Hospitally s.r.l. (già M.B. s.r.l.) e la Italam 86 s.r.l. hanno proposto ricorso per
cassazione articolato in due motivi avverso la sentenza n. 7848/2014 della CORTE D’APPELLO di
ROMA, depositata il 31 dicembre 2014, con cui, in riforma della pronuncia resa in primo grado dal
Tribunale di Roma n. 15572/2008, è stata rigettata l’impugnazione della deliberazione assembleare
adottata dal Condominio (OMISSIS), in data 16 gennaio 2006. Resiste con controricorso il
Condominio (OMISSIS).

La Corte d’Appello di Roma ha ritenuto che il punto 4 dell’ordine del giorno della riunione del 16
gennaio 2006, relativo alle “delibere” da adottare in ordine alla “nuova attività” esercitata dalla
B.B.C. Italia s.r.l., conduttrice dei locali di proprietà della Italam 86 s.r.l., ben potesse comprendere
le valutazioni da assumere con riguardo alle canne fumarie installate al fine dell’esercizio
dell’attività di ristorazione nella medesima unità immobiliare, installazione già osteggiata in
pregresse decisioni assembleari negli anni 2003 e 2004. Parimenti, la Corte di Roma escludeva
l’illegittimità della inibizione dell’attività di ristorazione, approvata dall’assemblea 16 gennaio 2006
in base all’art. 9, comma 2, del regolamento condominiale, il quale vieta la destinazione dei negozi
ad uso “diverso da… commercio regolarmente autorizzato dalle autorità competenti”, in quanto, a
dire della sentenza impugnata, l’attività di ristorazione è eterogenea rispetto all’attività propriamente
commerciale, giacchè caratterizzata dalla creazione di un risultato economico nuovo rispetto alla
materia prima trattata, e quindi piuttosto da intendersi come attività industriale.
Le parti hanno presentato memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione
In via pregiudiziale, non va disposta la riunione tra il presente giudizio e quello, contraddistinto
come R.G. 27162/2017, anch’esso pendente innanzi alla Corte di Cassazione, discusso alla stessa
udienza ed avente ad oggetto l’impugnazione della sentenza 6260/2017 della Corte d’Appello di
Roma, trattandosi di ricorsi proposti contro sentenze diverse pronunciate in separati giudizi. Pur
attenendo le cause connesse ad identiche questioni di diritto, la riunione non perseguirebbe alcun
obbiettivo utile in termine di economia e minor costo dei due giudizi, nè favorirebbe la loro
ragionevole durata.
I.Il primo motivo del ricorso della A.R.P. Food&Hospitally s.r.l. e della Italam 86 s.r.l. denuncia la
violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1105, 1109, 1136 e 1139 c.c. e dell’art. 66 disp. att. c.c.,
deducendo l’incompletezza dell’ordine del giorno dell’assemblea 16 gennaio 2006 e la non
riferibilità dello stesso alla decisione poi adottata di rimozione delle canne fumarie.
Il secondo motivo del ricorso censura la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1138 e 1362 e
ss. c.c. e art. 2195 c.c., quanto all’interpretazione del divieto contenuto nell’art. 9, comma 2, del
regolamento condominiale ed alle nozioni di attività commerciale ed attività industriale riferite, in
specie, all’attività di ristorazione esercitata dalla M.B..
II.Sono da superare le eccezioni di inammissibilità sollevate dal controricorrente, in quanto i due
motivi espongono gli elementi necessari ad evidenziare le ragioni per cui si chiede la cassazione
della sentenza di merito, ed in particolare indicano il contenuto essenziale dei documenti su cui il
ricorso è fondato.
III.I due motivi di censura sono comunque infondati.
III.1.Quanto al primo motivo di ricorso, circa la mancata previsione, nell’ordine del giorno della
delibera assembleare impugnata, dell’argomento relativo alla rimozione delle canne fumarie, la
Corte di Appello ha ritenuto tale argomento indicato nel punto 4 del medesimo ordine del giorno o
comunque ad esso riconducibile (“delibere” da adottare in ordine alla “nuova attività” esercitata
dalla B.B.C. Italia s.r.l.). La decisione della questione di diritto operata dalla Corte d’Appello è
conforme all’interpretazione costante della giurisprudenza, consolidatasi prima dell’entrata in vigore
dell’art. 66 disp. att. c.c., comma 3, (introdotto dalla L. 11 dicembre 2012, n. 220, e perciò qui non
applicabile rationetemporis), secondo cui, affinchè la delibera di un’assemblea condominiale sia
valida, è necessario che l’avviso di convocazione elenchi, sia pure in modo non analitico e
minuzioso, specificamente gli argomenti da trattare sì da far comprendere i termini essenziali di essi
e consentire agli aventi diritto le conseguenti determinazioni anche relativamente alla
partecipazione alla deliberazione. In particolare, la disposizione dell’art. 1105 c.c., comma 3, – che
si riteneva applicabile anche in materia di condominio di edifici, in difetto di una analoga
prescrizione quale quella ora contenuta nel richiamato art. 66 disp. att. c.c., comma 3, -, la quale
stabilisce che tutti i partecipanti debbano essere preventivamente informati delle questioni e delle
materie sulle quali sono chiamati a deliberare, non comporta che nell’avviso di convocazione debba
essere prefigurato lo sviluppo della discussione ed il risultato dell’esame dei singoli punti da parte
dell’assemblea. In ogni modo, l’accertamento della completezza o meno dell’ordine del giorno di
un’assemblea condominiale – nonchè della pertinenza della deliberazione dell’assemblea al tema in
discussione indicato nell’ordine del giorno contenuto nel relativo avviso di convocazione – rimane
demandato all’apprezzamento del giudice del merito insindacabile in sede di legittimità se, come nel
caso della sentenza impugnata, adeguatamente, per quanto succintamente, motivato (cfr. Cass. Sez.
2, 27/03/2000, n. 3634; Cass. Sez. 2, 22/07/2004, n. 13763; Cass. Sez. 2, 10/06/2014, n. 13047;
Cass. Sez. 2, 25/10/2018, n. 27159). Nè si comprende, una volta accertato che la questione fosse
comunque posta all’ordine del giorno, perchè le ricorrenti lamentino la non unanimità della
deliberazione di rimuovere le canne fumarie installate sulla facciata dell’edificio (essendo presenti
nell’adunanza del 16 gennaio 2006 soltanto 19 condomini su 21 complessivi), in quanto l’assemblea
dei condomini ha certamente il potere di decidere a maggioranza, nell’interesse collettivo, le
modalità concrete di utilizzazione dei beni comuni, anche disponendo l’eliminazione di impianti ivi
collocati da alcuni partecipanti se gli stessi arrechino pregiudizio alle parti condominiali.
III.2.Circa il secondo motivo, è invece da ribadire come l’interpretazione delle clausole di un
regolamento condominiale contrattuale, contenenti il divieto di destinare gli immobili a determinati
usi (al fine di tutelare l’interesse generale al decoro, alla tranquillità ed all’abitabilità dell’intero
edificio, nonchè ad incrementare il valore di scambio delle singole unità immobiliari) è sindacabile
in sede di legittimità solo per violazione delle regole legali di ermeneutica contrattuale, ovvero per
l’omesso esame di fatto storico ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (Cass. Sez. 2, 30/06/2011,
n. 14460; Cass. Sez. 2, 31/07/2009, n. 17893; Cass. Sez. 2, 23/01/2007, n. 1406; Cass. Sez. 2,
14/07/2000, n. 9355; Cass. Sez. 2, 02/06/1999, n. 5393; più di recente, non massimate, Cass. Sez.
6-2, 14/05/2018, n. 11609; Cass. Sez. 6-2, 21/06/2018, n. 16384).
Nella specie, l’interpretazione fatta dalla Corte d’Appello dell’art. 9, comma 2, del regolamento del
Condominio (OMISSIS), non rivela le denunciate violazioni dei canoni di ermeneutica.
La condivisa esigenza di chiarezza e di univocità che devono rivelare i divieti ed i limiti
regolamentari di destinazione alle facoltà di godimento dei condomini sulle unità immobiliari in
proprietà esclusiva, coerente con la loro natura di servitù reciproche, comporta che il contenuto e la
portata di detti divieti e limiti vengano determinati fondandosi in primo luogo sulle espressioni
letterali usate. L’art. 1362 c.c., del resto, allorchè nel comma 1 prescrive all’interprete di indagare
quale sia stata la comune intenzione delle parti senza limitarsi al senso letterale delle parole, non
svaluta l’elemento letterale del contratto, anzi intende ribadire che, qualora la lettera della
convenzione, per le espressioni usate, riveli con chiarezza ed univocità la volontà dei contraenti e
non vi sia divergenza tra la lettera e lo spirito della convenzione, una diversa interpretazione non è
ammissibile (Cass. Sez. 3, 27/07/2001, n. 10290).
In particolare, l’interpretazione di una clausola del regolamento di condominio, contenente il divieto
di destinare i negozi ad uso diverso da “commercio regolarmente autorizzato dalle autorità
competenti”, secondo cui collide con lo stesso divieto l’esercizio dell’attività di ristorazione, non
risulta nè contrastante con il significato lessicale delle espressioni adoperate nel testo negoziale, nè
confliggente con l’intenzione comune dei condomini ricostruita dai giudici del merito, nè contraria a
logica o incongrua, rimanendo comunque sottratta al sindacato di legittimità l’interpretazione degli
atti di autonomia privata quando il ricorrente si limiti a criticare il risultato ermeneutico raggiunto
dal giudice ed a lamentare che quella prescelta nella sentenza impugnata non sia l’unica
interpretazione possibile, nè la migliore in astratto.
E’ invero plausibile concludere, come inteso dalla Corte di Roma, che esuli dalla mera attività di
commercio (la quale si risolve nella semplice intermediazione e distribuzione dei prodotti, di per sè
consentita dalla disposizione regolamentare) l’esercizio di un’attività di ristorazione, in quanto
comunque o connotata dalla trasformazione delle materie prime alimentari a fini di
commercializzazione di un bene direttamente utilizzabile per il consumo con caratteristiche diverse
da quelle del bene originario, e dunque volta alla creazione di un risultato economico nuovo,
elemento questo distintivo delle imprese industriali ex art. 2195 c.c.; oppure consistente, in ogni
caso, nella produzione di beni per la somministrazione di alimenti e bevande avvalendosi di
laboratori di carattere artigianale.
Non rileva decisivamente opporre in questa sede l’interpretazione offerta dalla giurisprudenza di
legittimità o dalla dottrina in ordine alla nozione normativa di commercio, ai fini della
riconducibilità ad essa dell’attività di ristorazione, in quanto l’interpretazione delle disposizioni di
legge (la cui erroneità è denunciabile per cassazione quale violazione o falsa applicazione di norme
di diritto), regolata dall’art. 12 preleggi assegnando un valore prioritario al dato letterale ed
individuando, quale ulteriore elemento, l’intenzione del legislatore, costituisce un’operazione
ontologicamente distinta dall’interpretazione contrattuale in senso stretto, avendo questa ad oggetto
la determinazione della volontà dei contraenti ed essendo perciò riservata al giudice del merito (la
cui decisione resta censurabile in sede di legittimità solo per violazione delle regole di ermeneutica
o per vizi di motivazione).
IV. Il ricorso va perciò rigettato e le ricorrenti vanno condannate in solido a rimborsare al
Condominio controricorrente le spese del giudizio di cassazione.
Sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17,
che ha aggiunto il comma 1-quater all’art. 13 del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115
– dell’obbligo di versamento, da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione integralmente rigettata.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna in solido le ricorrenti a rimborsare al controricorrente le spese
sostenute nel giudizio di cassazione, che liquida in complessivi Euro 5.200,00, di cui Euro 200,00
per esborsi, oltre a spese generali e ad accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dall’art. 1, comma 17, della L.
n. 228 del 2012, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte delle ricorrenti,
dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del
comma 1-bis dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Seconda sezione civile della Corte Suprema di
Cassazione, il 30 gennaio 2019.
Depositato in Cancelleria il 4 aprile 2019